LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 
                        Terza sezione civile 
 
    Composta dai magistrati: 
      dott. Giacomo Travaglino, Presidente estensore; 
      dott. Antonella Di Florio, consigliere - R.G.N. 33855/2019; 
      dott. Marco Rossetti, consigliere - cron. 17970; 
      dott. Marco dell'Utri, consigliere - C.C. - 07/06/2021; 
      dott. Antonella Pellecchia, consigliere; 
    Ha pronunciato la seguente ordinanza interlocutoria in  relazione
al ricorso iscritto al n. R.G. 33855/2019, proposto da M. A. M., nato
il... in... (codice fiscale...),  rappresentato  e  difeso  dall'avv.
Giulio Marabini del Foro di Roma, giusta procura speciale apposta  in
calce al ricorso, domiciliato in Roma  presso  la  cancelleria  della
Corte di Cassazione; 
    ricorrente avverso decreto di rigetto n.  cron.  4354/19  del  27
settembre 2019 R.G.  6224/18  del  Tribunale  di  Bologna  -  Sezione
Immigrazione; 
    contro Ministero dell'interno (codice fiscale n. 80014130928), in
persona del Ministro pro tempore, rappresentato e  difeso  ope  legis
dall'Avvocatura dello Stato, domiciliata in via del Portoghesi n.  12
- intimato; 
    udita la relazione  svolta  nella  Camera  di  consiglio  del  13
gennaio 2021 dal Presidente, dott. Giacomo Travaglino; 
 
                          Premesso in fatto 
 
    1. Nel procedimento n. 33855/2019 RG, introdotto dinanzi alla III
sezione  della  Corte  di  cassazione   dall'avv.   Giulio   Marabini
nell'interesse del sig. M. A., con ricorso  avverso  il  decreto  del
Tribunale di Bologna n. 4354/2019 del 27 settembre 2019, con ii quale
era stata rigettata  la  domanda  di  Protezione  internazionale  del
richiedente asilo  proposta  ai  sensi  del  decreto  legislativo  n.
251/2007, il collegio ha rilevato, in limine litis, la mancanza della
certificazione della data di rilascio delle procura al difensore. 
    1.1. Oggetto della rimessione al Giudice delle  leggi  e'  l'art.
35-bis, comma 13, decreto  legislativo  n.  25/2008,  inserito  dalla
legge  n.  46/2017,  che  recita:  «la  procura  alle  liti  per   la
proposizione del ricorso in Cassazione deve essere conferita, a  pena
di  inammissibilita'   del   ricorso,   in   data   successiva   alla
comunicazione  del  decreto  impugnato;  a  tal  fine  il   difensore
certifica la data del rilascio in suo favore della procura medesima». 
    1.2.   La   previsione   normativa   della    necessita'    della
certificazione dell'autenticita' della data di rilascio della procura
da parte del difensore, limitatamente ai procedimenti  di  protezione
internazionale - che la Corte di Cassazione, a sezioni unite, con  la
sentenza n. 15771/2021, ha interpretato nel senso che la sua mancanza
determini la inammissibilita' del ricorso  -  pone,  a  giudizio  del
collegio, in primo luogo una questione di compatibilita' con l'art. 3
della Costituzione, inteso come principio  di  ragionevolezza,  quale
corollario del principio di eguaglianza. 
    1.2.1. La norma, che  costituisce  diritto  vivente  per  effetto
dell'interpretazione  adottatane,  parrebbe,   altresi',   porsi   in
contrasto: 
      a) con l'art. 10 della Costituzione,  sotto  il  profilo  della
tutela dei richiedenti asilo, quanto all'asserita  necessita'  che  i
predetti siano presenti sul territorio  nazionale  al  momento  della
presentazione del ricorso in cassazione; 
      b) con l'art. 24 della Costituzione, per  lesione  del  diritto
inviolabile di difesa riconosciuto, indiscriminatamente, a  cittadini
e stranieri; 
      c)  con  l'art.  111  Cost.,  poiche'  la  norma,  cosi'   come
interpretata dalle Sezioni Unite della Corte  di  cassazione  con  la
sentenza n. 15177 del 2021, potrebbe violare il principio del  giusto
processo; 
      d) con l'art. 117 Cost. in relazione alla direttiva  2013/32/UE
(Procedure comuni ai fini del riconoscimento  e  delta  revoca  della
protezione internazionale), con riferimento all'art. 46  (Diritto  ad
un ricorso effettivo: in particolare, § 11,  in  tema  di  condizioni
poste  dagli  Stati  membri  perche'  si  possa  presumere   che   il
richiedente asilo  abbia  implicitamente  ritirato  o  rinunciato  al
ricorso) e all'art. 28 (presunzione di rinuncia); all'art.  47  della
Carta dei diritti UE, agli articoli 18 e 19, §2 della medesima Carta;
agli articoli 6, 7, 13 e 14 CEDU. 
    1.3. Tanto premesso, il collegio osserva: 
A) La rilevanza della questione. 
    2. La questione  di  costituzionalita'  della  norma,  alla  luce
dell'interpretazione offertane dalle sezioni  unite  della  Corte  di
cassazione, appare, in primis, rilevante nel giudizio  a  quo  (oltre
che non manifestamente infondata, come meglio si dira' infra,  sub  6
s.s.). 
    3. Tanto e'  a  dirsi,  in  via  preliminare,  sotto  il  profilo
dell'effettiva sussistenza di un rapporto di connessione razionale  e
di proporzionalita' tra il mezzo predisposto  dal  legislatore  e  il
fine che lo stesso ha inteso perseguire,  avuto,  altresi',  riguardo
alle rilevanti conseguenze, sul piano dell'effettivita' della  tutela
giurisdizionale,  previste  per  la  sua  mancata  applicazione   (in
proposito, il collegio non puo' esimersi dal richiamare, sul delicato
tema della razionalita' del rapporto tra mezzo  e  fine,  la  storica
pronuncia della Corte costituzionale n. 16 del 1964, cui hanno  fatto
seguito le sentenze n. 231 del 1985; n. 368 del 1985; n. 14 del 1987;
n. 446 del 1988; n. 826 del 1988; n. 487 del 1989; n. 330  del  1990;
n. 467 del 1991; nn. 57 e 220 del 1995; n. 264 del 1996; n.  160  del
1997; n. 34 del 1999; nn. 190 e 234 del 2001; n. 185 del 2003; n.  14
del 2004; n. 7 del 2005 e n. 401 del 2007). 
    4. Il collegio remittente e' altresi' consapevole  che  i  limiti
imposti dalla costante giurisprudenza del Giudice delle leggi in tema
di  rilevanza  della  questione  di  legittimita'  costituzionale  in
materia processuale sono segnati, rispettivamente: 
      a) Dal principio secondo il quale, di fronte a  piu'  possibili
interpretazioni di un sistema normativa,  i  giudici  sono  tenuti  a
scegliere quella che  risulti  conforme  alla  Costituzione;  con  la
conseguenza che la  dichiarazione  di  illegittimita'  costituzionale
costituisce soluzione obbligata solo nell'ipotesi  in  cui  tutte  le
possibili interpretazioni  delle  norme  denunciate,  inquadrate  nel
rimanente  sistema,  dovessero  risultare,  in   sede   di   concreta
applicazione, in contrasto con i principi costituzionali (per  tutte,
Corte cost. 121/1994); 
      b) Dal principio secondo  il  quale  al  giudice  ordinario  e'
consentito di dubitare della legittimita' costituzionale d'una  norma
di legge quando tale questione sia per  lui  «rilevante»  -  concetto
definito dall'art. 23, comma secondo,  legge  11  marzo  1953  n.  87
(«Norme  sulla  costituzione  e   sul   funzionamento   della   Corte
costituzionale»), a  mente  del  quale  l'incidente  di  legittimita'
costituzionale puo' essere sollevato quando il  giudice  ritenga  che
«il  giudizio  non  possa  essere  definito  indipendentemente  dalla
risoluzione  della   questione   di   legittimita'   costituzionale».
«Rilevante»,  dunque,  e'  la  norma  di   cui   il   giudice   debba
necessariamente fare applicazione per decidere la controversia a  lui
sottoposta; 
      c) Dal principio secondo il quale la rilevanza di una questione
di legittimita' costituzionale deve essere  vagliata  ex  ante  sulla
base del petitum cosi' come prospettato dal giudice  rimettente,  non
gia' - ex post - sulla base di altre  decisioni  della  Corte  (Corte
cost. 30 aprile 2021, n. 34); 
      d) Dal principio secondo il quale (Corte cost. n. 84 e  59  del
2021, n. 254 del 2020, n. 179 del 2019) «la nozione di rilevanza  non
si identifica con l'utilita'  concreta  dell'auspicata  pronuncia  di
accoglimento per la  parte  nel  procedimento  a  quo:  essenziale  e
sufficiente a conferire  rilevanza  alla  questione  prospettata  e',
infatti,  che  il   giudice   debba   effettivamente   applicare   la
disposizione  della  cui  legittimita'  costituzionale   dubita   nel
procedimento pendente avanti a se'» (Corte cost. n. 253 del 2019),  e
che la pronuncia della Corte «influisca quantomeno sotto  il  profilo
argomentativo che sostiene  la  decisione  del  processo  principale»
(Corte cost. n. 28 del 2010 e n. 20 del 2016); 
      e) Del principio secondo il quale, in materia  processuale,  il
limite alla discrezionalita'  del  legislatore  e'  costituito  dalla
razionalita' dell'apprezzamento (tra le tante, funditus, Corte  cost.
n. 490 del 1988 e n. 104 del 1969), ovvero dalla arbitrarieta'  delle
scelte compiute o  della  loro  manifesta  irragionevolezza,  che  si
ravvisa ogni qual volta emerga una ingiustificabile compressione  del
diritto di agire o una imposizione  di  oneri  o  modalita'  tali  da
rendere impossibile o estremamente difficile l'esercizio del  diritto
di difesa o lo svolgimento dell'attivita' processuale (tra  le  tante
conformi, di recente, Corte cost. n. 58 del 2020); 
      f) Dal principio per il quale l'assenza  di  regole  di  natura
processuale a livello UE  in  una  determinata  materia  consente  ai
singoli Paesi membri un certo margine di discrezionalita',  in  forza
del principio dell'autonomia procedurale,  nella  determinazione  del
quadro processuale  interno  -  che  non  trasmoda,  peraltro,  nella
incondizionata  potesta'  di  legiferare,  costituendo   pur   sempre
espressione  di  una  competenza  delegata   nell'ambito   di   norme
secondarie,  che   gli   Stati   membri   esercitano   nell'interesse
dell'Unione. 
    5. Tanto premesso, il collegio osserva,  in  sunto  di  rilevanza
della questione: 
      a) Che le sezioni unite di questa Corte,  con  la  sentenza  n.
15771/2021, adottano un'interpretazione della norma di cui al  citato
art. 35-bis che costituisce diritto vivente, enunciando un  principio
di diritto che impone al  collegio  della  sezione  semplice  la  sua
applicazione,  non  consentendone  altre  diverse,  e   non   essendo
oggettivamente praticabile  ne'  predicabile  l'ipotesi  (di  cui  al
penultimo comma dell'art. 374 del codice di procedure civile) di  una
nuova rimessione alle sezioni unite, volta che la  data  di  deposito
della sentenza (il primo giugno del 2021) impedisce di ritenere anche
soltanto ipotizzabile un mutamento di indirizzo  del  supremo  organo
decidente; 
      b) Che la  Corte  costituzionale,  in  una  recente  pronuncia,
investita di una questione preliminare di inammissibilita'  sollevata
in limine dalla parte resistente, ha affermato (Corte cost. n. 33 del
2021) il principio - cui  il  collegio  presta  convinto  ossequio  -
secondo cui, qualora il rimettente abbia plausibilmente motivato - in
ragione dell'intervenuta sentenza della Cassazione  a  sezioni  unite
civili, che egli sospetta di contrarieta'  alla  Costituzione  -  nel
senso dell'impraticabilita'  di  una  interpretazione  conforme  alla
CEDU, «l'obbligo, per una sezione semplice della Corte di cassazione,
di astenersi dal decidere in contrasto con il  principio  di  diritto
enunciato dalle Sezioni unite attiene al  piano  dell'interpretazione
della legge, non a quello della verifica della  compatibilita'  della
legge  (cosi'  come  interpretata  dalle  Sezioni   unite)   con   la
Costituzione»; verifica, questa, che l'ordinamento italiano affida  a
ogni   autorita'   giurisdizionale   durante   qualsiasi    giudizio,
consentendo a tale autorita' di promuovere direttamente questione  di
legittimita' costituzionale innanzi alla Corte costituzionale,  senza
dover sollecitare allo scopo altra istanza superiore di giudizio  (in
termini, Corte cost. n. 75 del 2019, n. 39 del 2018, n. 259 e n.  122
del 2017); 
      c) Che, nel giudizio a quo,  la  mancata  certificazione  anche
della data di rilascio della procura imporrebbe a questo giudice  una
declaratoria di inammissibilita' del ricorso, senza poterne esaminare
la fondatezza nel  merito,  in  conseguenza  dell'applicazione  della
norma oggi  censurata,  cosi'  come  imposta  dalla  pronuncia  delle
sezioni unite di questa Corte. 
B)  La  non  manifesta  infondatezza  -  Aspetti  strutturali   della
questione di legittimita' costituzionale. 
    Ad avviso del collegio, la norma oggi censurata  pone  una  prima
questione di  logicita'  e  ragionevolezza,  sul  piano  del  diritto
interno, gia' sotto l'aspetto morfologico della sua applicazione. 
    6. Irragionevolezza e illogicita' intrinseca: il tenore letterale
della norma. 
    6.1.  Recita  il  testo  normativo:  «la  procura   deve   essere
conferita, a pena di inammissibilita' del ricorso, in data successiva
alla comunicazione del decreto impugnato; a tal  fine,  il  difensore
certifica la data del rilascio in suo favore della procura medesima».
Osserva  il  collegio  come  la  sanzione  dell'inammissibilita'  sia
testualmente circoscritta al solo presupposto della posteriorita' del
conferimento della procura rispetto al  provvedimento  impugnato,  ma
non alla certificazione anche della  data  del  rilascio  (la  norma,
difatti,  non  prevede  che  il  difensore  certifichi,  a  pena   di
inammissibilita', la data di conferimento della procura, volta che il
sintagma «a tal fine» appare,  sul  piano  lessicale,  oggettivamente
riferito al requisito della posteriorita' della procura rispetto alla
data del provvedimento impugnato.  Alla  luce  di  un'interpretazione
strettamente letterale della norma (ubi lex  voluit,  dixit),  se  la
certificazione della data fosse stata a sua volta richiesta a pena di
inammissibilita', non essendo tale, gravissima  sanzione  processuale
ricavabile in  via  presunti  vada  una  norma  che  non  la  preveda
espressamente - rendendosi, di converso, necessaria una  disposizione
espressa in tal senso. «Il fine» che la norma si  prefigge,  difatti,
ben potrebbe realizzarsi aliunde, attraverso il confronto tra la data
del provvedimento impugnato e quella apposta nel  corpo  del  mandato
alla liti, graficamente posposta alla prima. 
    6.1.1. Il collegio e'  consapevole  di  come,  in  astratto,  una
diversa interpretazione costituzionalmente orientata della norma oggi
censurata sarebbe legittimamente predicabile, alla luce della mancata
riproduzione  espressa  della   sanzione   dell'inammissibilita'   in
relazione anche alla certificazione della data. Ad assicurare il fine
perseguito  dal   legislatore,   pertanto,   sarebbe   necessario   e
sufficiente, ai fini dell'ammissibilita' del ricorso, che, nel  corpo
dell'atto di procura, si rinvenga un esplicito riferimento tanto alla
data del provvedimento impugnato quanto a  quella  del  suo  rilascio
(previa autentica della firma del conferente).  Qualora  quest'ultima
data risulti posteriore a  quella  della  comunicazione  del  decreto
impugnato, nessuna  inammissibilita'  (testualmente  circoscritta  al
requisito della posteriorita'  della  data  di  rilascio  rispetto  a
quella della comunicazione del provvedimento) sarebbe  legittimamente
predicabile, - potendosi, desumere la stessa attestazione della  data
dall'autentica  della  firma  -  in  ossequio  al   principio   della
strumentalita' delle forme processuali  e  del  raggiungimento  dello
scopo (piu' volte affermato da questa Corte di legittimita', anche  a
sezioni unite:  ex  permultis,  Cass.  S.U.  8312/2019;  22438/12018;
10937/2017; Cass.  24990/2021;  12171/29020;  18535/2019;  9772/2016;
22871/2015).  La  mancata   certificazione   della   data,   comunque
risultante   dall'atto,    costituirebbe,    pertanto,    una    mera
irregolarita', una volta raggiunto lo scopo della norma, non  essendo
le forme processuali prescritte per la realizzazione di un valore  in
se,  ma  per  il  perseguimento   di   un   certo   risultato,   onde
l'inosservanza di un requisito formale risulta irrilevante se  l'atto
viziato ha ugualmente raggiunto il suo  scopo  (cosi',  testualmente,
Cass.  24990/2021,  cit.).   In   tal   modo   si   impedirebbe   che
l'inosservanza di  una  forma  processuale  da  parte  del  difensore
ridondi a carico del ricorrente, con le  gravissime  conseguenze  che
quest'ultimo sarebbe costretto  a  subire,  cosi'  approdando  ad  un
risultato costituzionalmente adeguato (Cass. pen. S.U. 26338/2017), e
fugando  interpretazioni  inutilmente   formalistiche   (Cass.   S.U.
26338/2017), irrimediabilmente ostative all'accesso ad una  decisione
di merito, in un procedimento gia' mutilato di un grado di giudizio. 
    6.1.2. Tale possibilita' e', peraltro, normativamente preclusa al
collegio remittente nel caso di  specie,  alla  luce  della  doverosa
applicazione della norma, in guisa di  diritto  vivente,  cosi'  come
imposto dalla pronuncia delle sezioni unite. 
    6.1.3. Pertanto, la rimessione alla Corte non  e'  funzionale  ad
una pronuncia volta ad una interpretazione difforme rispetto a quella
adottata  dalle  sezioni  unite,  bensi'  ad   una   valutazione   di
costituzionalita' della norma, nella sua portata di diritto  vivente,
per effetto della pronuncia n. 15177 del  2021  delle  sezioni  unite
della Corte di cassazione (supra, sub 1.2. e sub 5.a). 
    6.2. Irragionevolezza e illogicita' estrinseca:  la  ratio  della
norma. 
    6.2.1. Secondo l'interpretazione predicatane dalle sezioni unite,
la  ratio  legis   della   disposizione   oggi   censurata   andrebbe
fondamentalmente individuata nella garanzia che  il  richiedente  sia
ancora presente nel territorio dello Stato - «cio' che costituirebbe,
in generale, il presupposto per la validita' della  procura»  (f.  6,
parte finale del punto S. della sentenza). 
    6.2.2. La conformita' alla Costituzione dell'art.  35-bis,  comma
13, come diritto vivente interpretato alla  luce  di  tale,  presunta
ratio legis, appare, preliminarmente, posta in dubbio dal  fatto  che
la  norma  introduce  un  trattamento  differenziato  tra   cittadini
italiani e richiedenti la  protezione  internazionale  e  tra  questi
ultimi e gli altri stranieri, che non  appare  sorretto  da  adeguata
giustificazione. 
    6.2.3. Vengono, nello sviluppo della motivazione, collateralmente
individuate     ulteriori     rationes     legis     a     fondamento
dell'interpretazione adottata. Esse sarebbero rappresentate: 
      -   dall'intento   del   legislatore   di    scongiurare    una
sottoscrizione preventiva ed un riempimento successivo della procura,
rilasciata   «in   bianco»   in   epoca   anteriore    all'attualita'
dell'interesse a ricorrere (f. 45 della sentenza); 
      - dal risparmio  dei  costi,  sociali  ed  economici  («inclusi
quelli, comprensibilmente frequenti, di  patrocinio  a  carico  dello
Stato») connessi alla materia della  protezione  internazionale,  che
verrebbero accordati ad un richiedente il quale, nuovamente emigrato,
non vi abbia interesse, «rendendosi cosi' necessaria  la  limitazione
di un diritto fondamentale in vista  della  protezione  di  interessi
pubblici essenziali» (f. 46 della sentenza); 
      -  dall'irrilevanza  dell'eliminazione  del  doppio  grado   di
giudizio di merito operata dal decreto-legge n. 13/2017 (f. 13  della
sentenza: sulla questione,  espressamente  menzionata  dalle  sezioni
unite in termini di irrilevanza, si tornera' infra); 
      - dalla funzione deflattiva rispetto alla proposizione gratuita
dei ricorsi in Cassazione - come da testuale  dichiarazione  resa  in
sede di discussione parlamentare del provvedimento di conversione del
citato  decreto-legge  dal  relatore  (f.  17-18  della  sentenza)  -
«considerato  il  peso  rappresentato  dal  contenzioso  in   materia
migratoria che si sarebbe prevedibilmente abbattuto sulla  cassazione
per effetto  dell'eliminazione  del  secondo  grado  di  giudizio  di
merito» (f. 45); 
      - dallo scopo di arginare - «come rilevato in  dottrina»  -  il
malcostume, talvolta tristemente accertato, di proporre  impugnazioni
sempre e comunque, magari palesemente infondate  nell'aspettativa  di
lucrare la liquidazione della parcella conseguente all'ammissione  al
patrocinio gratuito (f. 19 della sentenza); 
      -  dalla  funzione  di  impedire  l'accesso  al   giudizio   di
cassazione  al  soggetto  espulso,  o  medio  tempore   allontanatosi
dall'Italia, non riproducendo la disposizione oggi censurata, per  il
ricorso in Cassazione, la facolta' di rilascio di  procura  consolare
per il giudizio di merito (f. 19 della sentenza); 
      - dallo  «scopo  ultimo»  -  differenziandosi  radicalmente  il
potere certificatorio «ordinario» conferito ex lege al difensore  dal
sistema di cui agli articoli 369 del codice di procedura civile comma
2 n. 3 e 125 comma  3  del  codice  di  procedura  civile  da  quello
demandatogli   in   materia   di   protezione   internazionale    con
l'imposizione di un atto ben  distinto  e  ulteriore  di  fidefacenza
della data, in alcun modo  surrogabile  aliunde  dal  mero  contenuto
complessivo della procura - apertamente rivolto a contenere l'uso  di
pratiche anomale di rilascio della procura (f. 26 della sentenza); 
      - dal conseguente scopo «di contenere il numero di  ricorsi  in
Cassazione  per  effetto  dell'eliminazione  del  grado  di  appello,
attribuendo al difensore un compito che contribuisce a  garantire  la
legalita'» (f. 26 della sentenza). 
    6.3. Questo giudice dubita che la norma di cui all'art. 35  cosi'
applicata  (che  vedrebbe  calare  definitivamente  la  scure  su  un
considerevolissimo  numero  di  ricorsi  in  materia  di   protezione
internazionale, precludendone irrimediabilmente l'esame  nel  merito)
sia idonea a  superare  il  necessario  vaglio  di  ragionevolezza  e
logicita' strutturale, prima ancora che funzionale (su cui infra, sub
7.),  sul  piano  della  conformita'  a   Costituzione,   pur   nella
riconosciuta dimensione  di  ampia  discrezionalita'  legislativa  in
materia processuale. 
    6.4. La garanzia che il richiedente asilo sia ancora presente nel
territorio dello Stato,  «onde  impedire  l'accesso  al  giudizio  di
cassazione al  soggetto  espulso  o  allontanatosi  dall'Italia,  che
conseguirebbe alla lettura del combinato disposto dei commi  2  e  13
dell'art. 35-bis, il primo  dei  quali  consente  il  rilascio  della
procura ad litem anche  all'estero,  per  il  tramite  dell'autorita'
consolare italiana, senza che tale disposizione  sia  riprodotta,  al
comma 13, in tema di ricorso per  cassazione  -  onde  la  necessaria
presenza, nel territorio dello  Stato  del  ricorrente  all'atto  del
conferimento della relativa procura». 
    6.4.1. La norma, applicata nella sua portata precettiva in  guisa
di diritto vivente, non pare, sul piano della invocata  ratio  legis,
conforme ai principi costituzionali indicati in premessa, per plurime
e concorrenti ragioni: 
      a)  Sul  piano  generale,   il   requisito   aggiuntivo   della
certificazione  della  data  allontana  radicalmente  l'istituto  dal
paradigma generale ricavabile dall'art. 83 del  codice  di  procedura
civile rendendolo, invece, omogeneo, sotto il profilo contenutistico,
al potere di autenticazione in senso proprio. Tale  assimilazione  si
palesa, peraltro: 1) sistematicamente incoerente, posto che il potere
di autenticazione fidefacente presuppone, oltre  alla  terzieta'  del
pubblico ufficiale rispetto alle parti dichiaranti  (che  e'  carente
nell'avvocato,  nel  quale  vengono  a   coincidere   il   ruolo   di
certificante e quello di  destinatario  dell'atto  di  designazione),
l'osservanza  di  una  serie  di  formalita'  volte  a  garantire  la
sicurezza dell'attestazione di  cui  la  disciplina  processuale  del
conferimento dello  ius  postulandi  e'  evidentemente  sfornita;  2)
incompatibile con la circoscritta finalita' del potere  certificativo
dell'avvocato, mantenuto nel codice di rito del 1940 al solo fine  di
ascrivere a quest'ultimo  la  responsabilita'  circa  la  coincidenza
soggettiva  tra  il  soggetto  conferente  il  mandato  e  la   parte
rappresentata in  giudizio,  mentre  la  prescrizione  dell'ulteriore
onere di certificazione della data  di  rilascio  della  procura  non
appare essenziale al soddisfacimento ne' di detta  esigenza,  ne'  di
quella, piu' specificamente afferente al ricorso per  cassazione,  di
dimostrazione della posteriorita' della  designazione  del  difensore
rispetto alla pubblicazione del provvedimento impugnato; 
      b) Il comma 13 dell'art. 35-bis appare  inoltre,  ad  una  piu'
attenta lettura, frutto del mancato coordinamento con la disposizione
dettata in tema di sospensione degli effetti del decreto  di  rigetto
della domanda di protezione internazionale; 
      b-1) Se, difatti, l'originaria automaticita' della  sospensione
si estendeva all'intero giudizio, fino al passaggio in giudicato  del
provvedimento all'esito del giudizio di  Cassazione  (consentendo  la
presunzione  semplice  della  presenza  del  richiedente  asilo   nel
territorio dello Stato di accoglienza), tale  presunzione  e'  venuta
meno a seguito della radicale  modifica  del  regime  di  sospensione
automatica dell'efficacia del provvedimento di rigetto della  domanda
di protezione internazionale da  parte  del  Tribunale.  Difatti,  ai
sensi del comma  13  dell'art.  35-bis,  «il  Tribunale  decide,  con
decreto non reclamatile, con cui rigetta il ricorso (ovvero riconosce
al ricorrente lo status di rifugiato o di persona cui e' accordata la
protezione  sussidiaria)»,  ma  la  sospensione  degli  effetti   del
provvedimento  impugnato  viene  meno  se,  con  decreto  anche   non
definitivo, il ricorso e' rigettato. Il medesimo  comma  13  prevede,
poi, che, sulla base di fondati motivi, il giudice che ha pronunciato
il decreto impugnato possa disporre la sospensione degli effetti  del
predetto decreto, e che tale sospensione sia disposta su  istanza  di
parte da depositarsi  entro  cinque  giorni  dalla  proposizione  del
ricorso per cassazione; 
      c) Ne consegue che, fino  alla  presentazione  dell'istanza  di
sospensione  (che  potra'   avvenire   non   prima   di   31   giorni
dall'emissione del provvedimento del Tribunale, se il termine per  la
proposizione del ricorso in Cassazione e'  di  trenta  giorni,  e  la
domanda  di  sospensione  deve  necessariamente   seguire   entro   i
successivi 5 giorni),  il  richiedente  asilo  potrebbe  allontanarsi
volontariamente, ovvero essere rimpatriato  -  in  esecuzione  di  un
decreto del Tribunale la cui efficacia non  e'  piu'  automaticamente
sospesa - ben prima  della  scadenza  del  termine  previsto  per  la
proposizione dell'istanza di sospensione,  con  la  conseguenza  che,
interpretata la norma nel senso opinato dalle sezioni unite (e  cioe'
essendogli preclusa la facolta' di proporre  ricorso  per  cassazione
tramite l'autorita' consolare, secondo il  procedimento  previsto  al
comma 2, essendone invece imposta la presenza  sul  territorio),  gli
verrebbe definitivamente  impedito  l'accesso  alla  giustizia  nelle
forme dell'unico rimedio oggi consentito,  all'esito  dell'abolizione
dell'appello e del reclamo. Va, in proposito, ancora  osservato  come
l'allontanamento volontario del richiedente asilo  sia  la  modalita'
privilegiata  di   esecuzione   dell'allontanamento,   come   risulta
testualmente dalla Direttiva rimpatri e dalla normativa di attuazione
contenuta nell'art. 13 del TU 286/1998, che  trova  applicazione  non
appena lo straniero non abbia piu' titolo di permanere nel territorio
nazionale; 
      d) Il richiedente  asilo,  all'esito  della  comunicazione  del
provvedimento di rigetto della sua domanda, ben potrebbe allontanarsi
volontariamente ovvero essere espulso dal  territorio  nazionale,  in
ossequio    a    quanto    disposto    dalla    normativa     vigente
sull'allontanamento, scegliendo il Paese dove recarsi - e cosi' anche
fugare il rischio di essere successivamente allontanato coattivamente
verso il proprio  Paese  d'origine.  In  tale  contesto,  la  mancata
previsione,  nell'art.  35-bis,  comma  13,  decreto  legislativo  n.
25/2008, della possibilita' di rilascio della  procura  consolare,  a
differenza di quanto previsto all'art. 35-bis, comma 2 per il ricorso
innanzi al Tribunale ordinario e in combinato disposto con il  regime
ingiustificatamente restrittivo sulla certificazione anche della data
della  procura,  avrebbe  l'effetto  di  privare  il  ricorrente  per
cassazione (diversamente da quello che ricorre dinanzi al  Tribunale)
del diritto alla tutela giurisdizionale effettiva del proprio diritto
fondamentale ad essere protetto, quale che  sia  la  fonte  giuridica
considerata (art. 24 Cost., art. 47 Carta dei  diritti  fondamentali,
art. 13 CEDU); 
      e) Non appare legittimo ricondurre tale  ipotesi  ricostruttiva
alla dimensione della sua concreta improbabilita' secondo  l'id  quod
plerumque accidit, volta che la legittimita'  di  un'interpretazione,
qualora siano in gioco  valori  costituzionali  come  la  tutela  dei
diritti fondamentali  della  persona  (sia  essa  un  cittadino,  uno
straniero,  ovvero  uno  straniero  richiedente   asilo)   non   puo'
prescindere  anche  dalla  improbabilita'   in   fatto   (o   secondo
statistica) di  un  evento  che,  pur  improbabile,  cio'  nonostante
rientri  nel  novero  delle  possibilita'  (quella,  cioe',  che   ii
richiedente asilo, dopo della comunicazione del decreto, si rechi  in
un Paese terzo, dove attendere  l'esito  dell'eventuale  giudizio  di
cassazione, il  cui  accesso  gli  sarebbe  impedito  dalla  ritenuta
impossibilita'  di   rilascio   della   procura   tramite   autorita'
consolare); 
      f)  Una  lettura  costituzionalmente  orientata  del  combinato
disposto della norma dianzi esaminate  (peraltro,  non  consentita  a
questo collegio), diversamente  da  quanto  opinato  dalla  decisione
delle sezioni unite, non escluderebbe la possibilita' di un  rilascio
della  procura  anche  al  di  fuori  del  territorio  nazionale,   e
cancellerebbe ipso facto la presunta  funzione  della  certificazione
della data, e cioe' quella di assicurare la presenza del  richiedente
asilo nel territorio dello Stato; 
      g) Per altro verso, ove pure la  garanzia  della  presenza  del
richiedente asilo nel territorio  dello  Stato  dovesse  considerarsi
presupposto  indefettibile  del  procedimento  in  cassazione   «onde
evitare una (costosa) pronuncia inutiliter data» - come espressamente
paventato   in   sentenza   -   la   norma   oggi    sospettata    di
incostituzionalita' risulterebbe del tutto inidonea  ad  assolvere  a
tale  funzione.  Una  pronuncia  «utiliter  data»  dalla   Corte   di
Cassazione, difatti, non verrebbe in alcun modo garantita dalla  data
in calce alla procura, certificata o meno, volta che,  rilasciata  la
procura stessa - in ipotesi, nello stesso giorno della  comunicazione
del  decreto  di  rigetto  della  domanda  -  nulla  «garantisce»  la
successiva presenza del richiedente asilo sul territorio italiano, se
il termine di proposizione del ricorso e' fissato in  trenta  giorni,
quello per il  deposito  in  ulteriori  venti  giorni,  quello  della
decisione in sei mesi dal deposito del ricorso; 
      g-1) Se realmente il legislatore avesse  voluto  perseguire  la
finalita' di una decisione «utile»,  avrebbe  allora  dovuto  (e  ben
avrebbe potuto, atteso l'ampio margine di discrezionalita' in materia
processuale di cui si e' detto in premessa) disporre  l'obbligo,  per
il difensore, di attestare, in prossimita' della data  di  fissazione
dell'udienza di discussione in Cassazione, secondo la disciplina ed i
termini previsti per le memorie, la  attualita'  della  presenza  del
ricorrente nel territorio dello Stato, con un  adempimento  ulteriore
(ma legittimamente funzionale allo scopo), rispetto a quelli previsti
per l'ordinario ricorso per cassazione, atteso il margine di liberta'
inferiore dello straniero rispetto a quello che compete al  cittadino
all'interno del territorio dello  Stato,  giusta  l'insegnamento  del
Giudice delle leggi di cui alla sentenza n. 94 del 2009; 
      g-2) Va peraltro osservato, quanto «al diritto dello  straniero
di entrare e soggiornare nello  Stato  solo  conseguendo  determinate
autorizzazioni»,  nonche'  «all'ampia  discrezionalita'  nel  fissare
limitazioni all'ingresso degli stranieri» (Corte  cost.  n.  250  del
2010, n. 148 del 2008, n. 361 del 2007, n. 224 del  2006,  citate  in
motivazione  a  supporto  della  scelta  ermeneutica  adottata  dalle
sezioni unite al foglio 7, punto 8 della sentenza), che, da un canto,
si fatica a comprendere la rilevanza di tali principi con riferimento
alla disciplina dell'immigrazione in senso lato rispetto  al  diritto
alla protezione internazionale e, piu' specificamente, alla questione
qui rilevante; dall'altro, la pretesa  «territorialita'  dell'asilo»,
di cui pure si discorre in sentenza, e' platealmente smentita proprio
dalla procedura prevista dal  secondo  comma  dell'art.  35-bis  (che
consente il rilascio della procura  consolare  al  richiedente  asilo
soggiornante all'estero), peraltro testualmente esaminato in sentenza
al dichiarato scopo di differenziare i  regimi  impugnatori  in  sede
giurisdizionale; 
      h) Appare, pertanto, non conferente il  richiamo  (f.  9  della
sentenza) all'art. 46 § 11 della Direttiva Procedure, con la quale si
dispone che gli Stati membri «possono  stabilire  le  condizioni  che
devono sussistere affinche' si possa  presumere  che  il  richiedente
abbia  implicitamente  ritirato  o  rinunciato  al  ricorso»  ed   al
precedente  art.  28,  che  consente  «di  ritenere   presunte   tali
circostanze quando si e' accertato che il richiedente e' fuggito o si
e' allontanato senza autorizzazione dal luogo in  cui  viveva  o  era
stato trattenuto senza contattare  l'autorita'  competente  in  tempi
ragionevoli». La costante presenza nel territorio,  alla  luce  delle
indicazioni normative sovranazionali, non e' un requisito  necessario
per mantenere in vita la domanda di protezione internazionale,  cosi'
come, specularmente, la mancata presenza nel territorio italiano  del
ricorrente non  puo'  essere  intesa  come  implicita  rinuncia  alla
domanda; 
      i) Va ulteriormente osservato come la disciplina della rinuncia
alla domanda di protezione internazionale di cui al  citato  art.  28
della direttiva 2013/32/UE sia espressamente circoscritta  alla  sola
fase amministrativa del procedimento, e come detta rinuncia, in  tale
fase, possa essere anche implicitamente  desunta  dall'allontanamento
del richiedente non genericamente  dal  territorio  italiano,  bensi'
«dal luogo nei quale viveva o era  trattenuto,  e  dai  quale  si  e'
allontanato  senza  autorizzazione»  (in  tal  senso  dispongono  gli
articoli  23  e  23-bis  del  decreto  legislativo  n.  2812005,   di
attuazione  dell'art.  28  direttiva  2013/32/UE),  mentre  specifici
obblighi  informativi  sono  disposti  in   relazione   a   qualsiasi
disposizione inferente un regime di rinuncia, esplicita o  implicita,
della domanda; 
      i-1) Non si vede, pertanto, come possa applicarsi al regime del
ricorso giurisdizionale  una  regola  relativa  alla  rinuncia  della
domanda  amministrativa:  quando  il  ricorrente  agisce  avverso  la
decisione della Commissione territoriale, l'esame  della  domanda  di
protezione internazionale e' ormai concluso.  Attraverso  il  ricorso
giurisdizionale, egli invoca il diritto  alla  tutela  effettiva  dei
propri diritti, contestando la  decisione  amministrativa  di  fronte
all'autorita' giurisdizionale (art. 24 Cost.; art. 47 CDFUE; art.  13
CEDU), ed eventualmente  contestando  il  decreto  del  Tribunale  di
fronte al giudice di legittimita' (ancora  art.  24  Cost.;  art.  47
CDFUE; art. 13 CEDU). Nessuna previsione sulla rinuncia, esplicita  o
implicita, della domanda amministrativa di protezione  internazionale
appare applicabile alla fase della giurisdizione; 
      i-2) Quanto alla rinuncia al  ricorso  giurisdizionale,  l'art.
46(11) della direttiva 2013/32/UE  richiede  un'esplicita  disciplina
nazionale di attuazione. Ne consegue che l'affermazione  (punto  63.2
della sentenza delle sezioni unite) secondo cui tale disposizione  si
applicherebbe solo al primo grado di giudizio  (ritenendo  altrimenti
incompatibile con la norma sovranazionale la disciplina nazionale sul
ricorso in Cassazione), presta il fianco al rilievo per cui la  Corte
di  Giustizia  ha  ripetutamente  chiarito  che  «gradi  di  giudizio
ulteriori rispetto  al  primo  rientrano  nell'autonomia  procedurale
degli Stati membri di cui all'art. 19 TUE -  e,  pertanto,  rientrano
nell'abito di applicazione del diritto UE  -  risultando  sindacabili
alla luce dei principi di  equivalenza  e  di  effettivita'  ricavati
dall'art. 19 TUE, nonche' dal principio della tutela  giurisdizionale
effettiva di cui all'art. 47  della  CDFUE»  (sentenza  22  settembre
2019, FIR, C-422/18); 
      i-3) Al di fuori dell'ambito di applicazione  del  diritto  UE,
resta poi applicabile integralmente il  principio  costituzionale  di
cui all'art. 24 Cost., in  base  al  quale  la  rinuncia  al  ricorso
dovrebbe pur sempre trovare una  disciplina  espressa,  corredata  da
obblighi informativi circa le conseguenze implicite derivanti  da  un
comportamento materiale del soggetto; 
      l) In  definitiva,  il  collegio  dubita  della  conformita'  a
Costituzione del sillogismo  che  si  ricava  dalla  decisione  delle
sezioni unite, secondo il quale: 1) il difensore  certifica  la  data
del rilascio della procura; 2) la certificazione della data  assicura
la posteriorita' del ricorso rispetto al provvedimento impugnato;  3)
si assicura in  tal  modo  la  presenza  del  richiedente  asilo  sul
territorio dello Stato per evitare la  celebrazione  di  un  processo
inutile - dove le due  premesse,  maggiore  e  minore,  non  sembrano
consentire la conclusione che se ne deduce. 
    6.5. La necessita' di  evitare  prassi  scorrette  da  parte  del
difensore. 
    a)  Va  preliminarmente  osservato  come,  al  foglio  19   della
sentenza, vengano testualmente riportati  alcuni  rilievi  mossi,  in
proposito, da una dottrina che  discorre  di  argine  al  malcostume,
talvolta tristemente accertato, di  proporre  impugnazioni  sempre  e
comunque,  magari  palesemente  infondate  o  redatte   con   seriale
superficialita' nell'aspettativa di  lucrare  la  liquidazione  della
parcella conseguente all'ammissione del ricorrente  al  patrocinio  a
spese dello Stato (supra, f. 5). 
    a-1) Il  collegio  remittente  rileva,  preliminarmente,  che  la
citazione risulta soltanto parziale. 
    a-2) Si osserva, difatti, da parte dello stesso autore citato  in
sentenza, immediatamente dopo il riferimento sopra ricordato  (ma  di
tali ulteriori osservazioni, in sentenza,  non  si  rinviene  traccia
alcuna) la necessita' di evidenziare «che, a differenza della procura
alle liti per il giudizio di  primo  grado  (art.  35-bis,  comma  2,
decreto legislativo n. 25/2008) ove  espressamente  si  riconosce  la
possibilita'  di  rilascio  della  procura  consolare  nel  caso   di
ricorrente  che  si  trovi  all'estero,  analoga  previsione  non  e'
indicata nel comma 13 dello stesso articolo per  quanto  concerne  il
giudizio di legittimita'. Consegue che se il ricorrente, nei casi  in
cui la sospensiva non e' prevista automaticamente ovvero non e' stata
concessa, e' stato espulso oppure si e' allontanato dall'Italia,  non
puo' rilasciare la procura al difensore per il ricorso in  Cassazione
(a meno che il difensore lo raggiunga nel Paese in  cui  si  trova)».
Osservazione, quest'ultima, che appare del tutto in linea con  quanto
sopra esposto in ordine alla pretesa necessita'  della  presenza  del
richiedente asilo su territorio dello Stato. 
    b) Nel merito, osserva il collegio come, essendo richiesto,  alla
luce delle considerazioni che  precedono,  in  sede  di  impugnazione
dinanzi al giudice di cassazione, il perdurante interesse ( e non  la
diuturna presenza) del richiedente asilo al ricorso, sotto il profilo
della condotta e della  deontologia  del  difensore  possa  ritenersi
sufficiente un mandato ad litem completo della data del provvedimento
impugnato, dell'autentica della firma del ricorrente e della data  di
rilascio della  procura;  la  norma  di  cui  all'art.  35-bis,  come
interpretata dalle sezioni unite, si risolve,  in  definitiva,  nello
svuotare il ruolo del difensore comprimendo oltre  misura  i  diritti
del richiedente asilo, volta che la mancata certificazione della data
«ridonderebbe esclusivamente nei rapporti tra ricorrente e difensore»
e non anche sui diritti difensivi del richiedente asilo, che vedrebbe
il suo  ricorso  cadere  sotto  la  scure  dell'inammissibilita'  per
un'omissione  formale,  che  ben   potrebbe   costituire   una   mera
irregolarita' procedurale, commessa dal suo avvocato. 
    c) Sul piano della condotta processuale del difensore,  non  puo'
non considerarsi come, sul medesimo, gravino precisi obblighi  legali
(art. 88 del codice di procedura  civile)  e  deontologici,  volti  a
concorrere al corretto esercizio della funzione  giurisdizionale,  di
tal che gli eventuali casi di malcostume connessi al  rilascio  delle
procure, ove fossero specificamente accertati (e non oggetto  di  una
generalizzata  quanto  indimostrata  presunzione,  che  finisce   per
offendere l'intera categoria forense), ben  potrebbero  e  dovrebbero
essere sanzionati con gli strumenti disciplinari propri dei  Consigli
dell'Ordine  degli  avvocati,  che   possono   giungere   fino   alla
sospensione dall'esercizio della professione. 
    d) Se  per  altro  verso  -  ed  in  coerenza  con  la  parte  di
motivazione in cui si predica la soluzione della certificazione  come
finalizzata «alla eliminazione di tale malcostume» (e non a destinare
alla scure dell'inammissibilita' migliaia di  ricorsi,  al  fine  «di
contenere  il  numero  dei  ricorsi  per  Cassazione»:  f.  26  della
sentenza)  -  si  volesse  ritenere  realistica   tale   indimostrata
illazione, non puo' non considerarsi che lo scorretto difensore,  che
apponga una data falsa rispetto al giorno del concreto rilascio della
procura, non esiterebbe anche a certificarla, volta  che  l'eventuale
procedimento di querela di falso (a tacere di quello per  l'eventuale
imputazione di falsita' di foglio parzialmente  firmato  in  bianco),
astrattamente proponibile anche nel giudizio di legittimita' (sia pur
nei limiti indicati, tra le altre, da Cass. n. 12311 del  2007  e  n.
21657 del 2006) risulterebbe  del  tutto  irrealistico  e  del  tutto
impercorribile, sul piano probatorio,  alla  luce  della  sistematica
assenza della controparte nei giudizi di cassazione. 
C) La non manifesta infondatezza - Aspetti funzionali della questione
di     legittimita'      costituzionale      (i      principi      di
equivalenza-comparazione-effettivita'). 
    7. Osserva preliminarmente il collegio remittente che, giusta  il
recente insegnamento del giudice delle leggi (Corte cost. n. 186  del
2020, che richiama la storica pronuncia n. 120  del  1967),  il  dato
letterale del riferimento ai «cittadini» contenuto nell'art. 3 Cost.,
apparentemente ostativo all'applicazione del principio di uguaglianza
a  favore  di  tutti  i  consociati,  risulta   da   tempo   superato
dall'interpretazione che reputa tale principio operante anche per gli
stranieri tutte le  volte  in  cui  si  tratti  di  tutelare  diritti
fondamentali. Di  qui,  la  conseguenza  che  non  e'  consentito  al
legislatore introdurre regimi differenziati circa il  trattamento  da
riservare ai singoli consociati se  non  in  presenza  di  una  causa
normativa non palesemente irrazionale o,  peggio,  arbitraria  (Corte
cost. n. 432 del 2005). 
    7.1. Osserva ancora il collegio come, nel disposto  dell'art.  2,
comma 5 del Testo Unico Immigrazione (decreto legislativo  25  luglio
1998, n. 286), si riconosca allo straniero,  da  parte  dello  stesso
Giudice delle leggi, il diritto «alla parita' di trattamento  con  il
cittadino relativamente alla tutela  giurisdizionale  dei  diritti  e
degli   interessi   legittimi,   nei   rapporti   con   la   pubblica
amministrazione e nell'accesso ai pubblici servizi, nei limiti e  nei
modi previsti dalla legge». 
    7.2. Si tratta  di  norma  di  rango  ordinario,  ma  sicuramente
applicabile in guisa di principio generale. 
    7.2.1. Parimenti espressivo di un  principio  generale  e'  stato
ritenuto,  dallo  stesso  Giudice  delle  leggi  nella  sopra  citata
pronuncia n. 432/2015, sia pur a diversi fini, l'art. 41 del TUI  (si
legge, nella motivazione della pronuncia, che la norma "espressamente
sancisce il principio secondo il quale «gli stranieri titolari  della
carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore
ad un anno, nonche' i minori iscritti nella loro carta di soggiorno o
nel loro permesso di soggiorno, sono equiparati ai cittadini italiani
ai fini della fruizione delle provvidenze e delle prestazioni,  anche
economiche, di assistenza sociale Questa disposizione - al pari delle
altre contenute nel medesimo  testo  unico  -  costituisce,  a  norma
dell'art. 1, comma 4, del medesimo decreto  legislativo  n,  286  del
1998,  principio  fondamentale  «ai   sensi   dell'art.   117   della
Costituzione» - ovviamente nel testo allora vigente - «nelle  materie
di competenza legislativa delle regioni», fra le quali rientra quella
del trasporto regionale. Un principio, dunque, il quale - al  di  la'
del diverso risalto che ad esso  puo'  annettersi  nel  quadro  della
nuova distribuzione della potesta' legislativa tra Stato e Regioni  -
ben puo'  essere  richiamato  come  necessario  paradigma  sulla  cui
falsariga calibrare l'odierno scrutinio di ragionevolezza; e cio'  in
quanto, proprio avuto riguardo al rilievo generale che quel principio
continua a svolgere nel sistema,  qualsiasi  scelta  del  legislatore
regionale che introducesse rispetto ad esso regimi derogatori -  come
senz'altro e' avvenuto nella disposizione oggetto  di  impugnativa  -
dovrebbe permettere di rinvenire nella stessa struttura normativa una
specifica, trasparente e razionale «causa giustificatrice», idonea  a
«spiegare», sul piano costituzionale, le «ragioni» poste a base della
deroga). 
    7.2.2.  E'  sommessa  opinione  del  collegio  remittente  che  i
medesimi principi, espressamente predicati dalla Corte costituzionale
in tema di rapporti amministrativi di carattere regionale, siano  del
tutto esportabili, mutatis mutandis, ai  rapporti  tra  lo  straniero
richiedente asilo e la giurisdizione italiana. 
    8. La non manifesta infondatezza della questione oggi  sottoposta
al vaglio di costituzionalita' della Corte, nell'indicata prospettiva
funzionale dell'invocato scrutinio, si sostanzierebbe alla  luce  dei
principi costituzionali di uguaglianza e di diritto alla difesa, ed a
quelli sovranazionali di equivalenza ed effettivita'. 
    8.1. Nel par. 61 della sentenza, si legge: «la  circostanza  che,
per la materia disciplinata dal comma 13 dell'art. 35-bis, sia  stato
introdotto un meccanismo di accesso alla Cassazione diverso da quello
ordinariamente previsto dal codice di procedura  civile  per  materie
non regolate dal diritto UE non integra ex se alcuna  violazione  del
principio di equivalenza, per l'assorbente  ragione  che  non  vi  e'
alcuna materia regolata dal diritto interno omogenea a  quella  della
protezione internazionale e dell'asilo che qui viene precipuamente in
discussione e che goda di  una  tutela  maggiormente  protettiva  con
riguardo alla proposizione del ricorso per cassazione». 
    8.2. L'affermazione, priva di ulteriori argomentazioni  circa  la
specialita' del diritto alla protezione internazionale  e  dell'asilo
tale da impedirne la  qualificazione  di  diritto  analogo  ad  altri
aventi fonte giuridica nell'ordinamento interno, non e' condivisa dal
collegio remittente. 
    8.3. Secondo il costante insegnamento della Corte  di  giustizia,
spetta al giudice nazionale valutare la comparabilita' dei diritti di
matrice UE con quelli di matrice interna (salvo, in talune  pronunce,
compiere essa stessa tale valutazione: C.d.G. 24  ottobre  2018,  XC,
C-234/17; 27 giugno 2013, Agrokonsulting-04, C-93/12). 
    8.4. Sia che la valutazione dell'equivalenza sia  compiuta  dalla
Corte di giustizia, sia che essa venga riservata  alla  giurisdizione
nazionale,  il  giudice  sovranazionale  afferma   costantemente   il
principio secondo il  quale,  per  verificare  «se  i  ricorsi  siano
simili», occorre «tenere conto  dell'oggetto,  della  causa  e  degli
elementi fondamentali  di  tali  ricorsi»  (Agrokonsulting-04,  cit.,
punto  39),  ovvero  «dell'oggetto,  della  causa  e  degli  elementi
essenziali» (Pontin, cit., punto 39). 
    8.5. Manca, nella valutazione compiuta dalle sezioni unite  sotto
il  profilo   dell'equivalenza,   qualsiasi   giustificazione   della
specialita' del diritto alla protezione  internazionale  rispetto  ad
altri diritti  aventi  il  loro  fondamento  nel  diritto  nazionale,
omettendosi  del  tutto  qualsiasi  giudizio  di   comparazione   con
procedimenti analoghi secondo  i  criteri  indicati  dalla  Corte  di
giustizia (oggetto, causa, elementi essenziali). 
    8.6. Osserva il  collegio  come  tali  caratteri  di  omogeneita'
possano (e  debbano),  di  converso,  essere  rinvenuti  in  tutti  i
procedimenti   interni   aventi   ad   oggetto    diritti    relativi
all'attribuzione di uno status. 
    8.7. Volendo restringere il campo  della  relativa  analisi  allo
scopo di individuare una sicura omogeneita' tra procedimenti  interni
e  il  procedimento  di   derivazione   comunitaria   di   protezione
internazionale, vanno, a tal fine, segnalati: 
    9. Il procedimento di apolidia, del tutto assimilabile,  ai  fini
del giudizio di equivalenza e di comparazione, a quello  previsto  in
tema di protezione internazionale quanto a soggetti, oggetto,  causa,
elementi  essenziali,  diritti  fondamentali  tutelati.  Il   decreto
legislativo n. 13 del 17 febbraio  2017,  nel  regolare  la  relativa
procedura - istituite, presso le sedi di  14  Tribunali,  le  Sezioni
Specializzate  in  materia  di  immigrazione  -  ha  esteso  loro  la
competenza in materia di accertamento dello stato di apolidia,  cosi'
modificando il decreto legislativo n. 150 del 1° settembre  2011  con
l'inserimento dell'art. 19-bis, ove si legge che «le controversie  in
materia di accertamento dello stato di  apolidia  sono  regolate  dal
rito sommario di cognizione e che e'  competente  il  Tribunale  sede
della Sezione Specializzata del luogo in  cui  il  ricorrente  ha  la
dimora». In argomento, giusta l'insegnamento di questo stesso giudice
di legittimita' «l'apolide e', sotto molteplici profili,  assimilato»
allo straniero al quale sia riconosciuto lo status riconducibile alla
protezione  internazionale,  con  una  sostanziale   uniformita'   di
discipline,  ai  fini  del  riconoscimento  di  una  condizione   che
garantisca il pieno rispetto dei diritti  umani  e  fondamentali  non
dissimili  da  Quelli  del  titolare  di  una  misura  di  protezione
internazionale» (...) «sul rilievo della necessita' di  assicurare  a
entrambe le categorie cittadini stranieri il diritto, alle condizioni
previste dalla legge, di condurre un'esistenza  libera  e  dignitosa,
perche' garantita dal riconoscimento dei diritti  fondamentali  della
persona  umana,  in  uno  Stato  che  per  elezione  o   molto   piu'
frequentemente alla stregua di criteri normativi cogenti, sia  quello
destinato all'accertamento delle condizioni di  riconoscimento  dello
status in questione» (cosi', Cass. 4262/2015). 
    Le norme procedurali non prevedono, in subiecta  materia,  alcuna
«specialita'» della procedura di rilascio della  procura  sub  specie
della certificazione della data a pena di inammissibilita'. 
    10.  Il  procedimento  in  tema  di  protezione  umanitaria   (in
relazione  al  quale  la  richiesta  omologia   si   fa   addirittura
identita'), nel cui ambito (ed a meno di una impensabile applicazione
di un criterio di analogia legis in malam partem!), non e' ricompresa
la disciplina dell'art. 35-bis, che limita la sua portata applicativa
alle sole Protezioni cd. Maggiori (status di rifugiato  e  protezione
sussidiaria). Costituisce, difatti, diritto vivente, alla luce  della
consolidata giurisprudenza di questa Corte, il  principio  (affermato
da  ultimo  da  Cass.  5926/2001)  a  mente  del  quale  il   decreto
legislativo n. 25 del 2008, art. 35, comma 1, prevede la possibilita'
di ricorso dinanzi all'autorita' giudiziaria ordinaria e  avverso  la
decisione della Commissione in tema di riconoscimento dello status di
rifugiato o di persona cui e' accordata la protezione sussidiaria; il
citato decreto, art. 35-bis, (nel  testo  vigente  al  momento  della
presentazione del ricorso, introdotto dal decreto-legge  17  febbraio
2017, n. 13, convertito con modificazioni dalla legge 13 aprile 2017,
n.  46,   prima   delle   modifiche   ulteriormente   apportate   dal
decreto-legge 4 ottobre 2018,  n.  113,  convertito  dalla  legge  1°
dicembre 2018, n. 132) prevede che le controversie aventi  a  oggetto
l'impugnazione  dei  provvedimenti  previsti  dall'art.   35,   siano
regolate dalle disposizioni di cui agli articoli 737 e ss. del codice
di procedura civile, ossia dal  cosiddetto  rito  camerale,  ove  non
diversamente disposto; lo stesso decreto-legge n. 13 del  2017,  art.
3, comma 1, nel testo originario,  indicando  le  materie  attribuite
alla  competenza  delle  sezioni  specializzate,  distingue  tra  «le
controversie  in   materia   di   riconoscimento   della   protezione
internazionale di cui al decreto legislativo 28 gennaio 2008, n.  25,
art. 35», incluse sub lett. c), e  «le  controversie  in  materia  di
riconoscimento della protezione umanitaria nei casi di cui al decreto
legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, art. 32, comma 6»,  di  cui  alla
lett. d); il citato art. 3, comma 4-bis, introdotto  dalla  legge  di
conversione n. 46 del 2017, stabilisce che  siano  soggette  al  rito
camerale speciale (caratterizzato da decisione in  forma  collegiale,
udienza solo eventuale, esclusione dell'appello, impugnabilita'  solo
con ricorso per cassazione)  le  sole  e/o  le  controversie  di  cui
all'art. 3, comma 1, lett. c); ne discende che per le controversie di
cui alla lett. d)  il  rito  applicabile  e'  quello  ordinario,  con
decisione assunta dal Tribunale in composizione monocratica  soggetta
ad appello, oltre che  a  ricorso  per  cassazione;  la  formulazione
normativa cosi' ricostruita ha creato una distinzione tra  le  azioni
volte al riconoscimento della protezione internazionale  (finalizzate
al riconoscimento dello status di rifugiato ovvero  della  protezione
sussidiaria e le azioni volte al riconoscimento della sola protezione
umanitaria, poiche' il legislatore, pur avendo attribuito  per  tutte
queste controversie la  competenza  alle  sezioni  specializzate,  ha
scelto  riti  diversi,  ossia   per   il   giudizio   di   protezione
internazionale uno speciale rito camerale e per il giudizio  relativo
alla protezione umanitaria il rito ordinario dinanzi al Tribunale  in
composizione monocratica; in considerazione di  una  simile  panorama
normativa la giurisprudenza di questa Corte ha percio'  chiarito  che
nella vigenza del decreto-legge n. 13 del  2017,  art.  3,  comma  1,
lett. d),  e  comma  4,  convertito  nella  legge  n.  46  del  2017,
successivamente modificato dal decreto-legge n. 113 del 2018, art. 1,
comma 3, lett. a), conv., con modif., nella legge n.  132  del  2018,
qualora sia stata proposta esclusivamente la  domanda  di  protezione
umanitaria,  la  competenza  per  materia  appartiene  alla   sezione
specializzata del Tribunale in composizione monocratica, che  giudica
secondo il rito ordinario  ex  art.  281-bis  e  ss.  del  codice  di
procedura  civile,  o,  ricorrendone  i   presupposti,   secondo   il
procedimento sommario di cognizione ex art. 702-bis e ss. del  codice
di procedura civile, e pronuncia sentenza o ordinanza impugnabile  in
appello, atteso che il rito previsto dal decreto  legislativo  n.  25
del  2008,  art.  35-bis,  con  le  peculiarita'  che  lo   connotano
(composizione  collegiale  della  sezione  specializzata,   procedura
camerale  e  non  reclamabilita'  del  decreto),  ha  un  ambito   di
applicazione espressamente  limitato  alle  controversie  di  cui  al
decreto legislativo n. 25 del 2008, art.  35,  e  a  quelle  relative
all'impugnazione  dei  provvedimenti  adottati  dall'Unita'   Dublino
(Cass. 16458/2019, Cass. 3668/2020, Cass. 20888/2020). 
    Le norme procedurali non prevedono, in subiecta  materia,  alcuna
«specialita'» della procedura di rilascio della  procura  sub  specie
della certificazione della data a pena di inammissibilita'. 
    L'abrogazione delle relative disposizioni ad opera della legge n.
113/2018 (a sua volta abrogata dalla legge n. 130/2020) non  puo'  in
alcun modo ritenersi rilevante  ai  fini  dell'invocato  giudizio  di
comparazione, alla luce della non retroattivita' della  normativa  in
parola (Cass. ss.uu. 29459/2019). 
    11. L'art. 35-bis, comma 13, del decreto legislativo  n.  25  del
2008 pone, in guisa  di  diritto  vivente,  alla  luce  del  predetto
giudizio  di  equivalenza,  seri  dubbi  di   costituzionalita'   con
riferimento al principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) e  al  diritto
di difesa (art. 24 Cost.), in quanto introduce, per  una  determinata
categoria di stranieri, un regime processuale peggiorativo -  perche'
comportante un esercizio del diritto  di  azione  piu'  gravoso,  con
riferimento alle modalita'  di  conferimento  della  procura  e  alle
conseguenze derivanti dalla loro inosservanza - non solo  rispetto  a
quello riservato ai cittadini, o ancora a quello applicabile per  gli
altri stranieri che agiscano davanti al giudice italiano  (ai  quali,
secondo la giurisprudenza di legittimita', e', invece, consentito  il
rilascio del mandato ad litem nella forma prevista dall'art.  83  del
codice di procedura civile, «dovendosi  presumere  la  loro  presenza
nello stato italiano, che costituisce il presupposto per la validita'
della procura medesima,  dall'attestazione  del  procuratore  che  ne
autentica la sottoscrizione»: Cass. Sez. 6-1, ordinanza n. 665 del 13
gennaio 2011), ma  anche  all'interno  delle  medesime  categorie  di
soggetti - gli apolidi, i  richiedenti  la  protezione  umanitaria  -
senza che tale differenziazione in pejus risulti sorretta  da  alcuna
giustificazione  logica  o  razionale  (in  realta'   senza   nessuna
giustificazione tout court). 
    12. I dubbi di costituzionalita' manifestati  oggi  dal  collegio
fondano le proprie  radici  nell'insegnamento  dello  stesso  Giudice
delle leggi, che ha affermato, fin dal 1957, che il principio di  cui
all'art.  3  Cost.  «deve  assicurare  ad   ognuno   eguaglianza   di
trattamento,  quando  eguali  siano  le  condizioni   soggettive   ed
oggettive alle quali le norme giuridiche si riferiscono per  la  loro
applicazione» (sent. n. 3  del  1957),  con  la  conseguenza  che  il
principio  risulta  violato   «quando,   di   fronte   a   situazioni
obbiettivamente   omogenee,   si   ha   una   disciplina    giuridica
differenziata    determinando    discriminazioni    arbitrarie     ed
ingiustificate» (sent. n. 111 del 1981), di tal che «si ha violazione
dell'art. 3  della  Costituzione  quando  situazioni  sostanzialmente
identiche siano disciplinate  in  modo  ingiustificatamente  diverso,
mentre non si manifesta tale  contrasto  quando  alla  diversita'  di
disciplina corrispondano situazioni  non  sostanzialmente  identiche»
(sent. n. 340 del 2004).  E  non  ha  minor  significato  l'ulteriore
insegnamento che si ricava dalla motivazione della sent. n.  163  del
1993: «il principio di eguaglianza comporta che a  una  categoria  di
persone, definita secondo caratteristiche identiche o ragionevolmente
omogenee in  relazione  al  fine  obiettivo  cui  e'  indirizzata  la
disciplina normativa considerata, deve essere imputato un trattamento
giuridico identico  od  omogeneo,  ragionevolmente  commisurato  alle
caratteristiche essenziali in ragione delle quali e'  stata  definita
quella determinata categoria di persone. Al contrario, ove i soggetti
considerati  da  una  certa  norma,  diretta   a   disciplinare   una
determinata fattispecie, diano luogo ad una classe di persone  dotate
di  caratteristiche  non  omogenee  rispetto   al   fine   obbiettivo
perseguito  con  il  trattamento   giuridico   ad   essi   riservato,
quest'ultimo sara' conforme al principio di eguaglianza soltanto  nel
caso che risulti  ragionevolmente  differenziato  in  relazione  alle
distinte caratteristiche proprie delle sottocategorie di persone  che
quella classe compongono». 
    13.  Va  infine  osservato,  ma  soltanto  incidentalmente  e  ad
abundantiam, come, con riferimento alle  norme  dettate  in  tema  di
reati violenti transfrontalieri (su cui, funditus, Corte di giustizia
16 luglio 2020, in causa C-129.19, che ha sancito,  tra  l'altro,  la
piena  equiparazione  tra  la  cittadina  italiana  ed  i   cittadini
transfrontalieri, sia pur appartenenti all'UE, in sostanziale,  anche
se non formale, applicazione di un principio di  non  discriminazione
inversa), ci si trovi  parimenti  al  cospetto  di  una  materia  pur
assimilabile,  in  parte   qua,   al   procedimento   di   protezione
internazionale sotto il profilo dei soggetti (un cittadino estero)  e
dell'oggetto della tutela  (un  diritto  fondamentale,  quello  della
donna alla propria liberta' sessuale, al pari di quelli,  altrettanto
fondamentali, del richiedente asilo di sottrarsi a persecuzioni, pene
di morte, trattamenti inumani e degradanti). 
    13.1. Un giudizio di equivalenza non condurrebbe,  anche  in  tal
caso, ad esiti diversi (in assenza, anche in  quel  procedimento,  di
norme procedurali piu' restrittive) ove il Giudice delle  leggi  oggi
adito ritenesse (ma, si ripete, la questione e' del tutto marginale e
ininfluente, rispetto a quelle sinora  esposte)  di  non  condividere
(come  sommessamente  ritiene  di  poter  opinare   questo   collegio
rimettente) il principio affermato  dalla  Corte  di  giustizia  (per
tutte, C.d.G., sentenza Pontin, cit. punto 35) secondo il  quale  «in
una situazione (come  quella  oggetto  del  procedimento  principale)
relativa a due tipi di procedimenti fondati,  entrambi,  sul  diritto
dell'Unione, l'invocazione del principio di equivalenza e'  priva  di
rilevanza». 
    14. All'omissione formale di un'attivita' quale la certificazione
della data del mandato ad litem consegue, in applicazione della norma
oggi denunciata in guisa di diritto vivente, la  gravissima  sanzione
dell'inammissibilita'  di   ricorsi   aventi   ad   oggetto   diritti
fondamentali della persona, in un procedimento gia'  mutilato  di  un
grado di giudizio, con una scelta legislativa che, nonostante la  sua
apparente conformita' a Costituzione, lascia non  pochi  dubbi  sulle
modalita' procedurali con essa disciplinate, volta che  la  questione
relativa  all'eliminazione  del  giudizio  di  appello   risulterebbe
manifestamente infondata proprio alla luce del costante  insegnamento
del giudice delle leggi in tema di impredicibilita' di  una  garanzia
costituzionale del doppio grado di  giudizio  di  merito,  mentre  la
impraticabilita' ex lege anche del rimedio del reclamo  andrebbe  pur
sempre valutata,  giusta  insegnamento  dello  stesso  Giudice  delle
leggi, in relazione al mancato  riconoscimento  del  diritto  «ad  un
completo riesame del merito» (Corte cost., 18 luglio  1986,  n.  200;
Corte cost., 21 luglio 1983, n. 224),  vedendosi,  nella  specie,  in
terna  di  diritti  fondamentali  della  persona,   indifferentemente
cittadini, stranieri, ovvero stranieri richiedenti asilo  nel  nostro
Paese ai sensi dell'art. 10 della Carta costituzionale.